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Vacanza eterna con vista

Questo blog si porta dietro un doloroso excursus di ricordi legati alla primavera scorsa. Non avrei voluto più aprirlo per scrivere di fatti legati all’attualità pandemica. Anzi, avevo addirittura pensato di abbandonarlo definitivamente.

Invece m’è toccato in sorte di dover rispolverare la password e di cliccare sul tasto d’accesso, conscio che è l’unico piccolo sistema per dire un’opinione senza il fastidioso senso di caducità che hanno i messaggi sui social.

Il blog è un diario e un diario è meglio di una bacheca.

Il 24 ottobre scorso ho compiuto 44 anni, e per felice coincidenza ho trascorso il mio compleanno sul palco del Bloom assieme ai fratelli The Winstons.

In sala c’era l’esaurito sugli 80 posti disponili grazie anche ai 30 mila euro di spesa che il Bloom ha sostenuto per isolare la sala concerti dal secondo ingresso (come protocollo vuole); gente attenta, arretrata rispetto alla linea d’ombra che li copriva per intero. Io li vedevo poco, ma so per certo avevano tutti facce aperte, goduriose, disincantate di fronte al miracolo di un concerto di rock’n’roll che quasi sintonizza con il termine “archeologia”. Mentre suonavo covavo il sentimento (tutto autoreferenziale) che forse stavo facendo un’operazione di cucitura a distanza. La musica è potente a delineare ciò che è “comunicazione” in un momento di distanza. Cioè: la musica è relazione anche distanziabile, il suono è aria colorata e respirabile, un concerto è una macchina da cucire che “cuce” la collettività strappata.

Dirò di più: la musica cavalca l’Apocalisse, come si dice per trombe del giudizio. Se una nave (una nazione? Un continente? Un pianeta?) collassasse sotto il proprio peso e avremmo a che fare con l’ineluttabilità degli eventi, non è improbabile che la musica continui fino alla fine, laddove tutto il resto avrà fallito.

La collisione inevitabile di un asteroide con la superficie terrestre sarà accompagnata fino all’ultimo dal conforto di una musica personale, come in Melancholia di Von Trier. Se i dinosauri avessero saputo far musica si sarebbero estinti con essa.

Essa ci sarà fino all’ultimo istante di vita della razza umana. Dopodiché ci sarà il grande silenzio e l’emergere della naturale cacofonia non temperata.

Restando al grigio presente (visto che il futuro oramai non ci compete più, dura lex per i cartomanti), io son stufo dell’abuso del termine “responsabilità”. Improvvisamente questo termine è caricabile e scaricabile di polarità all’abbisogna per cui ad ogni piè sospinto si chiede grande atto di responsabilità alle persone. Mentre spesso le istituzioni, gli enti, le cordate, le organizzazioni e i loro rappresentanti “non si prendono” la responsabilità di fare" quell'altra tal cosa.

Quindi si chiede per la gente responsabilità agli altri, ma il gestore della res publica non si prende la responsabilità per gli altri.

Questo è uno dei tanti casi in cui mi si incastrano le dita nella tastiera della logica.

Di fatto, per non prendersi la responsabilità di una ulteriore crescita della curva dei contagi, si chiudono i luoghi di ricreazione senza un distinguo, senza un “ma”, senza una calendarizzazione o un check up delle reali possibilità di contagio e con la promessa (altra parola fastidiosissima di questi tempi) di riaprire quanto prima.

La cosa che odio di più di me stesso è che avrei mille idee e mille soluzioni a tal proposito, (tipo ristoranti aperti lunedì-giovedì, teatri e cinema venerdì-domenica una settimana sì e una no fino a dicembre; mezzi pubblici aumentati di vagone, dedicati a specifiche categorie di lavoro, mezzi mono persona potenziati; etc…). E quando penso in questi termini, giuro, mi detesto, mi spaccherei la testa contro un muro per smettere di avere “idee” che mille altre persone attorno a me potrebbero aver avuto.

Vorrei lenire la mia verve socio-creativa dicendomi “se non le han fatte queste cose vuol dire che non si possono fare o non sono realmente utili”. Vorrei placare i miei bollenti spiriti di sedicente assessore alla sanità locale dicendomi “più di così il comparto sanitario non può fare, più di così la ricerca non può dare, più di così le amministrazioni non possono fare”.

Se arrivassi a questo punto di quiete, farei un bel respiro (mascherinato) e mi darei dell’irresponsabile per via di questa cocciuta e persistente convinzione di essere un musicista “essenziale” alla vita di questo paese.

Ma non ci riesco.

Stamani mattina sono uscito con mia figlia e sul pianerottolo per l’ascensore ho incontrato il vicino di casa, persona piacevole e simpatica che lavora in una importante sartoria di Torino.

Ha un barboncino nero di nome Frullino, piccolo come un gatto, tutto pelo e ossa.

Mi viene naturale cedere il posto, perché so che lui sta andando a lavorare e di prescia.

Cane e padrone salgono a bordo e il soffietto si chiude.

Io e mia figlia abbiamo aspettato, senza alcuna fretta.

Che tanto siamo ospiti coatti in una vacanza eterna.




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