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"A New Adventure of Captain Future" CAPITOLO XVI: ritorno alla Torre del Governo


Ezra Gurney, levitando all'altezza della testa, strinse la mano di Anders con un servo-braccio salutandolo con la sua nuova voce metallica. Alla base della scatola cibernetica, del tutto simile a quella di Simon Wright, pendeva una medaglia al valor militare.

“È un piacere rivederti, vecchio Halk”.

“Il piacere è tutto mio, caro Ezra. Come ti senti?”

“Tutto intero come un tempo, anche se sono solo un cervello che fluttua...”.

“Felice di sentirti forte di spirito!”

“Se potessi masticare del rial lo sarei ancora di più. Purtroppo la mia dieta prevede sinapsi a colazione e neuroni a cena”.

“Io invece sono molto preoccupato” fece Anders corrucciato.

“Per il clima terrestre?”

“La diminuzione delle acque sta sconvolgendo il già nostro compromesso ecosistema. Ma non sono preoccupato solo per questo: il caso Uruk Sulcus è andato in malora. La trasformazione di Giove in supernova impedirà la trivellazione di Ganimede e le megaimprese hanno perduto i loro principali azionisti. Ci aspettano anni duri, in cui saremo tutti più poveri...” sospirò Anders, tintinnando nel bicchiere un cubetto di ghiaccio.

“L'area delle orbitali attorno all'ex-gigante gassoso non sarà più transitabile, Halk.”

“Lo so. La rotta della corrente dei massimi è tutta da ridisegnare. Sarà un lavoraccio che durerà un tempo incalcolabile. E io sarò da solo, stavolta.”

“E Curtis Newton?”

“Non se ne è avuto più traccia. Ora che quel ragazzone non c'è mi manca. Era un eroe, di quelli cui hanno perso lo stampo di fabbrica. I Futuremen, su Base Luna, non se ne danno pace: lo stanno cercando in lungo e in largo.”

“E Joan?”

“È qui al quartier generale, disperata...”

“Lo immagino”.

Sullo sfondo della Torre del Governo, i due Soli fendevano l'aria carica di vapore acqueo. Non si vedeva più un cielo azzurro da mesi.

Halk Anders, grondando di sudore, suggeva lentamente il suo cubetto di ghiaccio sorseggiandolo come fosse la più squisita delle delizie.

Un campanello trillò nella sala e si aprirono le porte a scorrimento con un sibilo. Le ante fecero largo alla nobile andatura di Joan Randall. Quando raggiunse la scrivania nessuno dei presenti ebbe il coraggio di parlare.

Del resto Joan non si aspettava di ricevere futili discorsi compassionevoli: in fondo erano tutti militari in servizio pronti alla morte, addestrati all’ineluttabile. Incluso il Maresciallo Ezra Gurney, ormai inscatolato in un nuovo iperbolico corpo minimale.

Joan si sedette in una poltrona incrociando le gambe, imbronciata e con i pensieri altrove.

Per rompere l'imbarazzante silenzio, Halk Anders dovette fare appello a tutta la sua (scarsissima) pazienza.

“Joan, fa piacere rivederti. Non vuoi parlare un po' con i vecchi amici?”

Il capo della Polizia Planetaria provò ad alleggerire l'ambiente.

“Di cosa dovremmo parlare Halk?” fu la reazione della ragazza.

“Ma, non so...” borbottò Anders in cerca di argomenti convincenti “vuoi che ti tenga al corrente degli sviluppi su una missione speciale sull'esopianeta K2-18? Ti interesserebbe essere della partita?”

“Sì, ma solo se è una missione suicida.”

“Animo, Joan, su!” esclamò il fluttuante Ezra che trovò opportuno intervenire per evitare una nube di malumore generale, “so che sei affranta per Curt Newton. Vedrai che da qualche parte si è cacciato e spunterà fuori quando meno te lo aspetti. Io sono l'esempio in persona della speranza ben riposta. Non credi?”

Joan, non rispose e guardò fuori le volute di vapore acqueo digradanti formare un cielo denso pronto alla tempesta. Le precipitazioni restituivano un po' di vita agli oceani, ma non erano più monsoni inscritti in un ciclo virtuoso: piuttosto l'inizio di un'era di cataclismi che avrebbe portato la Terra alla nuova condizione di pianeta in un Sistema Bisolare. Se l'uomo, nei millenni, avesse retto l'urto, era cosa del tutto ipotetica. Per ora valevano solo supposizioni senza pratica.

“Sta per venire giù un altro tsunami...”,

“Halk, la Terra dovrà farci l'abitudine. E l’essere umano con essa: l’uomo ha dominato spazi inesplorati, oltrepassato la velocità del suono e della luce, conosciuto altre forme di vita e dove la vita non è stata sufficiente è arrivata in aiuto la scienza cibernetica. Guarda me: io sono un perfetto esempio di riadattamento.”

“Lo so Ezra, ma l'essere umano per fare tutte queste cose che dici ha prodotto altrettanto sconforto, dolore e distruzione tanto da considerarlo più una piaga che una risorsa.”

“Se Madre Terra avesse voluto farlo scomparire lo avrebbe già fatto da tempo, ben prima che andassimo a infastidire altri mondi...”

“Già. Può anche darsi che l'uomo, con la sua maldestra interpretazione della Natura, sia voce preziosa della Natura stessa. Forse ne è subcosciente, è la parte oscura e inenarrabile di sé, l’incubazione di un incubo fatto realtà, l'unità di misura del sogno…”.

“Siete patetici,” fece Joan stizzita, “l'essere umano, che sia marziano, venusiano o terrestre è il prodotto di una burla, il parto crudele di un crudele destino e attendo con ansia il momento in cui la storia ci spazzerà via. Senza di noi l'Universo tornerà a respirare”.

La ragazza si alzò in piedi ed estrasse il distintivo dal taschino della sua uniforme, poi lo appoggiò sulla scrivania, caricando di teatralità la prossemica e facendo combaciare il bordo dello stemma in perfetta simmetria con la vecchia lampada da tavolo di Anders.

Dopodiché la ragazza portò la mano alla nuca e in un ultimo saluto militare batté i tacchi, girò il busto e uscì, scomparendo dietro la porta scorrevole.

“Forse Joan ha ragione” sospirò Anders che restò a guardare fuori uno scroscio d'acqua talmente furioso da oscurare completamente la linea dell'orizzonte e aggiunse: “comunque sia, dimissioni non accettate”.

Al turbine del rumore bianco che arrivava, attutito, dall'esterno della Torre del Governo, improvvisamente si inserì una chiamata dal videofono di servizio.

“Chi è?”

“Chiamata dei Futuremen da Base Luna” disse una voce neutra, in attesa di un affermativo.

“Ok, passameli”.

Comparve sullo schermo il volto luccicante di Grag che pareva trasudare affanno.

“Anderson! Ezra!”.

“Salve Grag, che succede?” chiese Ezra.

“Curt! Forse lo abbiamo trovato...”

Alla notizia i due militari non riuscirono a trattenere un sincero grido di giubilo.

“E dove si sarebbe cacciato?”

“Pare stia ancora inseguendo Ul Quorn. Stavolta dentro ad un film con tecnica fotogrammetrica

Anders puntò l'indice verso l'alto e tuonò “Ezra, richiama Joan e partite per Base Luna. Captain Future ha bisogno del vostro aiuto.”

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Il magnifico the dome che proteggeva Ganimede, come una calotta cranica, resse l'urto meglio di qualsiasi previsione.

Coloro i quali videro l'esplosione da vicino persero l'uso della vista; la vibrazione penetrò dentro le ossa, fin dentro ogni anfratto delle memorie corporee. Fu come lo schiudersi di un’alba incandescente, come l'aprirsi di un frutto fatto di fuoco e fiamme.

Europa, Io , Callisto, la Fascia di Kuiper e i tanti piccoli corpi celesti nel centro nevralgico del Sistema subirono deformazioni irreversibili.

Ganimede invece no: sprigionò una vitalità straordinaria. Vi fu chi dette il merito al fatto che fosse “il coppiere di Giove”, alludendo all'unico vero catamita, la figura mitologica del fanciullo preferito di Zeus, che dette il nome al satellite nella notte dei tempi.

Kunther era inebriato dai profumi del suo giardino, rigoglioso come non mai; la fonte di calore diretta aveva nutrito a sazietà il metabolismo delle sue piante. Appoggiato ad un arbusto carico di pomocrauti, conversava amabilmente con Moribund il Borgomastro rivolto a contemplare il nuovo sembiante di Giove con una buona bottiglia di vino di granide.

“Dovremmo dare un nome a questa stella, non credi?”

“I cervelloni sulla Terra lo hanno già fatto”.

“Davvero?”

“Lucifero, dicono. Ma a me proprio non piace”.

“Dannazione! Dovremmo essere noi di Ganimede a dare il genetliaco a questa nuova lampadina galattica! In fondo siamo noi che gli giriamo intorno. Non credi?”

“E tu come la chiameresti Borgomastro?”

“Un nome ce l’avrei già: Futuro. Curtis Newton si è sacrificato per distruggere quel bastardo di Ul Quorn e il minimo che possiamo fare è dedicargli una stella”.

Kunther annuì. Poi prese una forbice e recise il gambo di un frutto per saggiarne la consistenza. Lo lanciò contro il Borgomastro che lo agguantò al volo con la mano.

“Assaggia...mai stati così buoni”.

Il Borgomastro, seduto a cavalcioni su una pietra, affondò i denti nella buccia ruvida da cui un succo azzurrognolo stillò fuori copioso.

“Squisito!”

Kunther ne prese un altro e lo spolpò in un paio di bocconi.

“Quando sono rimasto bloccato sulla Terra, ho avuto molto tempo per pensare” fece Kunther pulendosi il mento sulla manica della veste, “vi era un grande paradosso dietro a quel Kyaputen Fyūchā del ventesimo secolo…”

“Spiegati”, Moribund intanto tracannò un sorso di vino.

“Se Kyaputen Fyūchā era stato creato in un'epoca antecedente alla nascita biologica del ‘vero’ Newton, come avrebbero fatto questi sedicenti animatori a modellare un personaggio così simile al ‘nostro’ Captain Future?”

Il Borgomastro mugugnò: “beh, significherebbe che Captain Future e i Futuremen erano già conosciuti nel ventesimo secolo, giusto?”.

“Per l’appunto”.

“E quindi avevano viaggiato nel tempo?”

“Impossibile: gli uomini di quell'epoca a malapena viaggiavano oltre la velocità del suono”.

“Non capisco dove vuoi arrivare, vecchio Kunther”.

“Alla deduzione logica che il nostro Captain Future sia frutto della fantasia umana di quel ventesimo secolo”.

“E noi?”

“Sarebbe lecito pensare che anche noi siamo un'invenzione. Magari in questo istante qualcuno ci sta scrivendo. E con questo bellissimo tramonto sullo sfondo sta per concludere la storia”.

“Tu sei tutto matto, vecchio Kunther!”, rise il Borgomastro.

“Il pensatore Basho direbbe:

Ancora vivo,

e il viaggio è finito!

Sera d’autunno”.

“Quindi anche questa meravigliosa sera d’autunno sarebbe un’invenzione?”

“Probabilmente nulla è reale e noi siamo nelle righe di un romanzetto di fantascienza da quattro soldi. Ma del resto, se anche così fosse, che differenza c’è? Abbiamo avuto la fortuna di vivere un'avventura nello spazio, piena di colpi di scena, astronavi, esplosioni, amori, viaggi interstellari, fughe rocambolesche. Lo scrittore che ha scritto di noi ha vissuto solo il surrogato delle nostre emozionanti gesta e ha appuntato solo lo scilinguagnolo della sua frustrazione mentale. Forse anche grazie a noi è evaso dalla sua stanza, dalla sua casa, dalla sua piccola nazione malata. Grazie a noi ha smesso di pensare ai problemi contingenti e si è lasciato sedurre dal racconto. I demiurghi si annoiano a morte. Incluso Dio, per il quale la razza umana è sicuramente niente più che un piccolo diversivo…”.

“Beh, allora brindo alla fortuna nostra”.

“Sì, alla fortuna nostra”.

FINE

終わり

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