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"A New Adventure of Captain Future" CAPITOLO XII: rendez-vous


“Cos'è questo orrendo grumo di gelatina a forma di faccia?” furono le prime parole a cui le mandibole pneumatiche di Grag dettero voce.

“Ammasso di ferraglia arrugginita, così ringrazi il tuo meccanico?” offeso, Otho, fece per calare sulla testa del robot un grosso cacciavite elettromagnetico. Ma Il Cervello lo afferrò al volo con le tenaglie dei suoi tenso-sensori.

“Vedo che sei tornato in te, Grag” disse Curt, ritrovando il sorriso.

Eek, la creaturina lunare telepatica salì sulle gambe del suo padrone dandogli una leccata affettuosa.

“Ciao piccolina! Cosa mi è successo?”

Joan, Curt e gli altri raccontarono al grosso robot tutto quanto. Dall'attacco fatale del Comet animato al salvataggio eroico di Joan Randall fino alla morte di Ezra.

“Il Mago di Marte? Ma non si era disintegrato con la Nova contro il Sole?”

“A quanto pare no.”

“Bene Captain: anche senza Comet, sono pronto a riprendere le mie funzioni!”

“Guardate fuori!” gridò Joan.

Trenta caccia della Polizia Planetaria erano in formazione attorno al ricognitore dei Futuremen, e lo circondavano come uno scudo difensivo.

“Captain Future, qui Pattuglia P- pronta all'attacco. Restiamo in attesa di un vostro ordine.”

“Procediamo in assetto coordinato.”

Lo sciame blu indaco procedeva a velocità d'impulso seguendo diligentemente la rotta dei Futuremen e quando raggiunsero in prossimità di Giove armarono i cannoni pronti all'offensiva.

Base Macchia Rossa era stata, ormai, identificata dai radar di Grag e divenne visibile a tutte le unità.

Una massa informe di astronavi rosso-nere Teklon, invasero il campo perimetrale.

La battaglia ebbe inizio.

La prima ostilità consistette in uno sciame di laser che si disperse nelle profondità del buio. Attraversarono il campo visivo delle astronavi indaco che all'arrivo della gragnola luminescente si schiusero rapidamente ai lati. Poi, come un organismo elastico, si ricompattarono in formazione attorno alla navicella dei Futuremen.

“Captain Future, vi scortiamo fino al punto convenuto poi apriremo un varco e vi lasceremo il via libera. Passo.”

“Ricevuto Pattuglia P-.”

Risposero con il fuoco frontale: una prima fila di caccia Teklon vennero colpiti dai cannoni d'assalto.

Alcuni caccia si avvitarono su sé stessi prima di esplodere e lasciarono dietro una scia filiforme di materiale gassoso fuoriuscita dagli impianti di propulsione.

“Hanno colpito quattro unità” disse Grag ai comandi “ce ne sono ancora una quarantina, ma paiono in aumento”.

“Dobbiamo solamente sperare di raggiungere lo scudo esterno della Base...”

I Teklon aprirono la formazione in ordine sparso. La Pattuglia P-, subì un altro assalto: le armi laser a gittata lunga erano state sostituite con mitragliatori siderali, arnesi capaci di sganciare tonnellate di plasma esplosivo. Le unità della Polizia Planetaria non riuscirono a schivare la rosa di fuoco e dieci di loro esplosero rilasciando sciami di detriti sottili. Le retrovie passarono attraverso nubi di ferraglia ad altissima velocità.

“La Pattuglia P- ha subito gravi perdite” segnalò Il Cervello di fronte al monitor secondario.

“Grag fai una manovra diversiva. Il bersaglio principale siamo noi, ci seguiranno” disse Curt

La manovra spezzò l'andamento lineare e la Pattuglia non riuscì a mantenersi compatta.

Metà dello stormo si gettò nella mischia utilizzando missili nucleari aria-vuoto ad esplosione continua. Quelle armi avevano la specificità di esplodere più volte lungo la ricerca automatica dell'obiettivo. Ma rendevano anche impossibile distinguere un falso bersaglio da uno vero.

Lo scontro divenne frenetico.

L'assalto frontale creò uno spazio vitale per l'altra metà della Pattuglia P- rimasta attorno alla navicella dei Futuremen. Lo stormo si mantenne nell’ellissi difensiva.

“Curt, potremmo tentare di raggiungere la Base procedendo sulla curvatura naturale della luce” suggerì Il Cervello.

“D'accordo Simon. Seguiamo l'Orizzonte degli Eventi. La Pattuglia P- ci verrà dietro.”

I Futuremen si innestarono nella corrente della luce in una morbida manovra oscillatoria e intanto vedevano il grosso dello scontro svolgersi nel perimetro esterno della Base, sempre più vicina, sempre più minacciosa. Dalla corazza esterna emersero i profili di cannoni antiaerei. Le lunghe canne scintillarono prima sparare.

Altre cinque unità indaco vennero abbattute schiantandosi sull'esterno della base.

I Futuremen approfittarono di un varco e puntarono dritti verso ciò che pareva la cler aperta di un hangar.

“Bersaglio agganciato” gridò Otho “cannone pronto!”

“Fuoco!” impartì l'ordine Captain Future.

Un proiettile di grossa dimensione venne sparato dal ricognitore dei Futuremen. La traiettoria era perfetta...

Accadde un baleno accecante: l’imbocco dell’hangar restò intonso.

“Qualcosa ha deviato il nostro attacco, Curt!” fece sbalordito Otho.

“Sì, quello...” disse Curt guardando fuori dagli oblò.

Una enorme sfera oscurò Giove producendo la corolla di un'eclissi color sangue. La sua superficie, così vicina, appariva irreale quanto un sogno apocalittico.

“L’atro Comet!” disse Joan, guardando anche lei fuori.

La testa della grossa astronave animata era sopra la navicella dei Futuremen e della Pattuglia superstite.

“Eccola Otho! non c'è tempo da perdere! Appronta il super-proiettore olografico. E speriamo che funzioni...”

“Agli ordini, Captain. Dispositivo in funzione.”

Curt aprì il palmo della mano e provò a sfilare dal medio della mano destra via il suo prezioso anello con l'emblema della famiglia Newton. In tutta la sua vita, da quando Simon Wright consegnò gli averi di famiglia al Curtis ragazzino, non se lo era mai tolto. Ora si era incassato nelle carni.

Nel tempo quell'anello avrebbe designato, al portatore, l'unica licenza di essere Captain Future, e nessuno avrebbe mai potuto confonderlo con altri totem galattici. Non era un semplice ricordo, ma il blasone di appartenenza ad un'aristocrazia scientifica, stroncata in gioventù e nel culmine della felicità famigliare da Corvo, il padre di Ul-Quorn.

Curt finalmente riuscì a sfilarselo e ne rimirò i dettagli, la squisita fattura, l’arzigogolo delle filigrane. Pulendolo con il pollice lo pose nello sportellino del super-proiettore, dove una cellula scanner ne produsse un'immagine olografica.

“Inizializzazione dell'elemento terminata” disse Otho, manovrando un joystick di precisione. L'androide premette un pulsante e l'immagine tridimensionale del blasone comparve grande e chiara nel vuoto spazio profondo.

“Se quello è un Comet e lì dentro c'è un altro Curtis Newton, riconoscerà l’anello come segno di alleanza” disse Curt.

“Altrimenti qui finirà il nostro viaggio, amici” aggiunse amaramente Grag.

Joan si avvicinò a Curt e lo abbracciò appoggiando la testa contro il petto.

Uno sciame di proiettili schizzarono da un cannone antiaereo; cinque caccia Teklon si diressero verso le astronavi superstiti della Polizia Spaziale, sparando all'impazzata.

Una maglia fittissima di detonazioni colpì un eguale numero di caccia Teklon e della Pattuglia P-.

I lapilli occultarono il campo visivo dei Futuremen, ma quando le polveri si diradarono, un portello del Comet animato si era aperto.

“Ci invitano ad entrare” disse Il Cervello.

“Grag: manovra di avvicinamento. Iniziamo il rendez-vous” ordinò Captain Future.

Mentre infuriava la battaglia, un ricognitore con a bordo due esseri umani, un androide, un robot, un cervello cibernetico, un camaleonte delle meteore e una creatura lunare stavano per incontrare i loro omologhi trans-dimensionali. Tutti i Futuremen si erano posti talmente tante domande da avere ormai una tale frenetica curiosità che speravano di non rovinare tutto con frasi o comportamenti esuberanti. Captain si raccomandò a Otho di non fare nessuna delle sue proverbiali battute (Grag rincarò la dose dandogli del chiacchierone senza cervello).

Entrarono e il portello si chiuse alle loro spalle.

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Il buio durava da giorni: lo avevano chiuso senza il rispetto dei minimi dettami convenzionali.

La convenzione di Ariele sulle norme punitive imponeva cibo, acqua, gravità e luce a qualsiasi prigioniero politico.

A Junid, invece, Ul-Quorn aveva sadicamente interdetto la possibilità di vedere alcunché. Il buio totale su una stazione gioviostazionaria era una tortura perché la percezione del movimento del flusso sanguigno era terribile: dava un costante senso di nausea senza il beneficio di un appiglio visivo. E il silenzio anecoico impediva a Junid di dormire. Avrebbe voluto spaccarsi la testa contro uno spigolo, se ne avesse trovato uno. Ma la cella era imbottita di poliuretanoidi, messi lì per resistere alle crisi di panico dei prigionieri più violenti.

Nel nulla totale in cui era conficcato il figlio del Borgomastro l'unica risorsa per non impazzire era ‘parlarsi’ da solo.

“Rancio per il prigioniero” disse una voce attraverso un altoparlante. Poi, da una piccola fessura, un tapis roulante accompagnò un contenitore con una piccola luce al cripto. Il bagliore era sufficiente per intravvedere la presenza del pasto, ma non se ne distingueva colore e forma e ogni volta Junid rimaneva disgustato dal sapore nauseabondo di quella robaccia.

“Maledetti bastardi! Dove sono gli altri? Che ne avete fatto” urlava, ma senza essere sicuro di essere udito da qualcuno.

Un giorno Junid percepì una vibrazione nuova: ponendo la mano verso una delle pareti, sentiva ad intermittenza dei colpi profondi. Era come se qualcosa in lontananza stesse dando scossoni.

Nel mentre che nello spazio esterno infuriava la battaglia, l'impatto dei veivoli danneggiati contro la superficie esterna di Base Macchia Rossa scuotevano la struttura portante.

Junid, rincorrendoli disperatamente come si fa con una fonte di calore nel gelo più puro, li scambiò per una vibrazione dei condotti di areazione.

“Mi stanno cercando...” si disse e iniziò a gridare con la voce rotta “sono qui! Tiratemi fuori!”

Un missile nucleare aria-vuoto ad esplosione continua detonò contro un assaltatore Teklon che, perdendo il controllo, si schiantò rovinosamente contro la paratia. La sequenza di corto circuiti che seguì generò un calo di potenza e i gli impianti di sorveglianza del modulo prigione andarono in tilt.

Junid, carponi, venne improvvisamente accecato da uno squarcio di luce. Sirene impazzarono senza sosta. La porta del cubicolo dove era rinchiuso, si era miracolosamente aperta. Tenendosi il braccio in faccia per schermare gli occhi disabituati, balzò fuori, rotolando.

Nessuno si curò di lui: c'era un vero inferno lungo i corridoi; paramilitari e tecnici della base correvano in ogni dove.

Un'esplosione fortissima scaraventò Junid all'indietro che si ritrovò con la testa in mezzo alle gambe di un cadavere sventrato: giacevano due arti inferiori macilente e a fianco di essi, imbevuta di sangue, una pistola protonica.

Riuscì ad afferrarla, senza vomitare e la pulì contro una parete. Nel boot di fianco era scoppiato un incendio. Vedendo accorrere due tecnici sudati e ansimanti e muniti di estintore, Junid arrancò nella direzione opposta.

Da un oblò quadrato posto a metà di un'intercapedine, vide nello spazio infuriare la battaglia e allora capì che quelle vibrazioni erano state detonazioni.

Da un momento all'altro poteva tutto saltare in aria.

“Devo trovare il Consiglio e fuggire da qui...” pensò Junid.

Non era certo un eroe, ma la circostanza lo aveva trasformato in un uomo di azione. Esplorò ogni ambulacro, ogni anfratto e finalmente sentì gemere. Riconobbe la voce del consigliere anziano: era accasciato al suolo, con la testa sanguinante. Lui solo era riuscito a trarsi in salvo dal cubicolo in cui era stato confinato.

“Junid, abbiamo commesso un grave errore. Il rimorso mi perseguiterà anche oltre il cielo stellato. Ma tu ora salvati. Vai e cerca Moribund il Borgomastro, tuo padre. Lasciami qui...” disse, poco prima di spirare l'ultimo alito di vita.

Una fiammata avvampò lungo tutto il corridoio e sfiorò la testa di Junid. Decine di persone fuggirono in ogni dove gridando urla disperate mentre le loro carni ardevano; lingue di fuoco divorarono macchinari, tubi di areazione e luci al cripto, alimentate dall'ossigeno immesso dall'impianto.

“Attenzione. Causa guasto irreversibile all'impianto di riscaldamento, il Modulo 4/SE verrà distaccato dalla struttura centrale…” disse una voce femminile sintetica e suadente, che avvertiva della situazione di pericolo le persone presenti nel modulo prigione.

“Portelli per le camere di collegamento in chiusura…” concluse, mentre gli allarmi stridevano e una luce rossa lanciava bagliori sulla desolazione dei corpi stesi alla rinfusa.

Junid prese a correre alla cieca e il respiro si fece pesante, sudando da ogni poro, urtando ad ogni angolo. Pareva essere l'unico superstite di una spaventosa carneficina.

Raggiunse un container più ampio degli altri dove un portello e una grossa leva indicava il passaggio alla camera stagna. Avrebbe potuto prendere una tuta e uscire in passeggiata, spingendosi con il rocket belt pack fino ad una delle pareti del corpo centrale della base.

Poi avrebbe provato a chiedere soccorso sulle frequenze radio della tuta. Ganimede non era lontano: ce l'avrebbe fatta.

Mentre Junid tentava di estrarre la tuta dal ripostiglio, vi fu un nuovo scossone e sbalzò al suolo, picchiando l’occipite. Il sangue colò accecandogli l'occhio sinistro e mentre con l'altro semichiuso cercava un appiglio gli apparve ritta in piedi, una figura ostile.

“Dove credi di andare?” disse con il tono garrulo di un'entità illusoria, sfocata nel corpo e nella percezione.

“Hnjar…” gemette Junid.

“Tu ora te ne stai buono buono ad aspettare la fine”.

I suoi capelli verdi erano impiastricciati di sangue. Puntando un fucile contro il ganimediano, allungò un braccio per afferrare la tuta spaziale “questa la prendo io”.

“Attenzione. Causa guasto irreversibile all'impianto di riscaldamento, il Modulo 4/SE verrà distaccato...”.

“Mi lasci qui a morire, mercenaria?” disse Junid, con la voce rotta, “prima o poi qualcuno te la farà pagare”.

“Non sarai certo tu quel qualcuno, contadino” e gli sferrò un colpo con il calcio del fucile.

Hnjar si infilò la tuta e premette il via libera dell'airlock per la camera stagna. Entrò dentro mentre il portello si chiuse alle sue spalle e restò ferma ad aspettare il count down per l'apertura sull'esterno. Ma non si rese conto che la tuta aveva un foro lungo quanto un dito, all’altezza della gamba.

La mercenaria saltò fuori nello spazio cercando di recuperare una posizione stabile con i retrorazzi. Ma l'ossigeno fuoriuscì in breve tempo e la bassissima temperatura le congelò la tibia che divenne un pezzo di ghiaccio.

Nell’affanno colpì il metallo appuntito del modulo e la sua gamba si frantumò i mille pezzi…

Junid da dietro il vetro pressurizzato, si concesse, con le ultime forze rimaste ad un lugubre sorriso.

Le luci improvvisamente si spensero e tutta la struttura vacillò; il metallo iniziò a implodere con stridore d’inferno.

“È la fine” sussurrò Junid, lasciandosi schiacciare al suolo dal crescente impeto centrifugo.

Un'ombra sottile saettò al di sopra del blocco vagante nello spazio, destinato a girare su sé stesso fino alla fine della sua vita tecnologica. L'ombra sembrò fare un intero giro finché riuscì ad agganciarsi, con estrema fatica, nell'airlock laterale.

Grasso e grosso, impacciato in una tuta spaziale fuori misura, qualcuno penetrò nella camera stagna.

Allungò lentamente le mani verso il corpo esangue di Junid e lo trascinò via.

つづく

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